Ci sono alcuni termini che ritornano in continuazione nel Terzo Settore, sono quasi come un mantra. Periodicamente tornano alla ribalta per ragioni legate all’attualità, come il PNRR, le nuove linee guida ministeriali o la riforma del terzo settore. “Co-progettazione” (prima ancora co-programmazione), “Reti territoriali” e “Infrastrutturazione sociale” sono fra questi. Sono spesso più evocati che reali, recitati per raggiungere obiettivi utilitaristici (dare conto della propria abilità di finanziatore, accedere ai finanziamenti, ricevere un premio in meccanismi pay by results ecc.). Quasi mai connotano una situazione reale e solida, in grado di lasciare un segno (un impatto) significativo e di durare nel tempo, consolidandosi e crescendo.

Vi sono certamente ragioni di contesto avverse (economiche, politiche, sociali), che la crisi pandemica ha fatto esplodere ulteriormente. Ma vi sono anche strategie di finanziamento e di intervento che continuano a girare intorno alle questioni centrali senza mai prenderle di petto.

Co-progettazione e infrastrutturazione sociale sono indissolubilmente legate: non vi può essere infrastrutturazione sociale se non co-progettata (e poi co-gestita) e, viceversa, solo una rete territoriale strutturata e integrata può nutrire con costanza co-progettazioni di qualità, sostenibili e a impatto.

Le reti e la co-progettazione hanno dimostrato di funzionare se…

Perché ciò avvenga, occorre lavorare su alcuni assi prioritari. Provo a indicarne alcuni:

  1. La co-progettazione è un processo che va pianificato per tempo, sostenuto economicamente (soprattutto nelle fasi iniziali), nutrito di competenze di alto livello, prevedendo risorse dedicate esclusivamente a fare funzionare i meccanismi di co-progettazione (facilitatori), da un lato, e a portarla avanti (partner, stakeholders), dall’altra. Le persone che fanno funzionare la co-progettazione devono essere messe nelle condizioni di farlo al meglio. Lo stesso di può dire delle reti che aspirino a diventare “infrastrutturazione sociale”.
  2. I processi devono avere regole di ingaggio, di partecipazione e di governance semplici, condivise, trasparenti e democratiche. Le regole devono essere scritte e controfirmate dai responsabili legali (verba volant… )
  3. Lo sforzo iniziale maggiore può più facilmente essere sostenuto da finanziatori con la massima libertà possibile di utilizzo dei fondi, come le fondazioni di origine bancaria o corporate, ma è la Pubblica Amministrazione che deve favorire l’ecosistema normativo in cui ci si muove e lavorare per incardinare le pratiche in politiche. Più che il referente politico, i processi funzionano se sono coinvolti i tecnici, i dirigenti e i funzionari delle amministrazioni locali.
  4. A proposito di locale, co-progettazione e infrastrutturazione sociale si tengono se l’ambito di intervento è un territorio specifico, limitato. Il forte radicamento territoriale delle realtà coinvolte non è sufficiente, ma necessario.
  5. La rete deve condividere una visione di medio lungo periodo e valori comuni. Il progetto è uno strumento per realizzare la visione, non il fine. Non ci si mette insieme per gestire servizi, ma per cambiare le cose. Lavorare sulla Teoria del Cambiamento collettiva ha dimostrato di facilitare enormemente questa convergenza.
  6. La rete deve convergere verso un unico sistema strutturato di monitoraggio e valutazione, meglio se integrato a un unico sistema di gestione delle anagrafiche dei destinatari delle azioni.
  7. Devono essere previsti momenti frequenti e strutturati di scambio, autoformazione, capitalizzazione delle conoscenze, delle competenze e dei risultati. Non basta investire nelle attività rivolte ai “beneficiari”.
  8. Occorre promuovere contemporaneamente un cambiamento culturale nei territori, che vada oltre i soggetti della rete e i beneficiari. Deve coinvolgere tutta la cittadinanza, con particolare attenzione ai giovani, altrimenti si costruisce sulla sabbia.

Perché la Theory of Change – Teoria del Cambiamento funziona

La co-progettazione e l’infrastrutturazioni delle reti non sono quindi processi da lasciare al caso o alla buona volontà degli operatori. Hanno bisogno di persone che conoscano la complessità dentro la quale si dovranno muovere e che abbiano dei punti di riferimento metodologici consolidati. Conoscere l’approccio e gli strumenti tipici della Teoria del Cambiamento può sicuramente fornire un ottimo ecosistema all’interno del quale far nascere e crescere co-progettazioni di successo.

[Foto di Eleventh wave – Unspalsh]

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