“Educazione e contrasto alla dispersione scolastica: dove stiamo sbagliando?”: è l’ambizioso il titolo che è stato assegnato a Christian Elevati. Lui è un esperto in programmazione e valutazione di interventi a impatto sociale e il 7 novembre, a Palermo, interverrà al seminario “School Plus, dalla dispersione all’inclusione scolastica”, in cui saranno presentate le esperienze degli otto progetti sostenuti dalla Fondazione CON IL SUD e realizzati in città con il Bando Educazione Giovani 2013.

Christian Elevati, dove stiamo sbagliando?

La dispersione scolastica è solo la punta di un iceberg: anche quando, con grandi fatiche, riusciamo a tenere a scuola i ragazzi e a portarli ad assolvere l’obbligo scolastico, che cosa abbiamo raggiunto? Spesso l’impatto di questo successo sulle vite dei ragazzi e sulle vite delle loro famiglie è troppo basso: escono dalla scuola ma non hanno sufficienti competenze per trovare lavoro, mentre anche quelli che si laureano studiano spesso al Nord e poi se ne vanno all’estero.

Quando si fanno interventi, sia come politiche nazionali sia come strategie locali questa complessità va tenuta insieme, non si può ragionare solo in termini di portare i ragazzi a terminare gli studi, altrimenti si rischia di disperdere energie. Giustamente quindi gli organizzatori del seminario hanno messo “inclusione” nel titolo: si deve parlare di inclusione e lavorare in modo trasversale, dobbiamo portare i ragazzi non solo a terminare gli studi, ma a metterli nelle condizioni di uscire di casa (l’81% vive con i genitori), farli uscire dalla povertà (i giovani, non più gli anziani sono la fascia più fragile), farli partecipare alla vita della comunità. L’Italia non investe poco nell’istruzione e nell’educazione (soprattutto nei cicli primario e secondario), non servono più risorse, si tratta di spenderle meglio.

È l’annoso problema della dispersione delle risorse e delle esperienze contro la dispersione. È noto, ma perché non riusciamo a evitarlo?

Non si investe nell’ottimizzare le risorse. Si parla molto di valutazione di impatto, ma è un tema su cui l’Italia è ancora indietro. Le politiche vanno idealmente testate prima di attuarle su scala nazionale e l’impatto va calcolato in modo previsionale prima di fare azioni di ampia scala, facendo un serio lavoro di validazione dell’impatto in itinere ed ex post.

È un po’ la critica fatta anche dall’OCSE, non solo all’Italia: dal 2006 al 2015 solo una riforma dei sistemi di istruzione su dieci è stata testata prima di essere implementata su scala nazionale. Invece ex ante nessun Governo testa mai in piccola scala la riforma che applicherà a tutto il Paese e se si aggiunge che una riforma avrebbe bisogno di 10-15 anni per andare a regime…

Quindi cosa suggerisce?

Bisogna fare un salto nella qualità della valutazione. Non il classico monitoraggio degli interventi, dove si dice quanti corsi sono stati fatti, quante aule, quanti alunni coinvolti, quanti sportelli psicopedagoci… questi numeri servono, ma sapendo che tutto questo è un mezzo per portare al vero fine, che è cambiare la vita degli studenti e delle loro famiglie. Questa domanda troppo spesso nemmeno ce la si pone.

Questa cultura della valutazione di impatto dobbiamo ancora costruirla, con una teoria del cambiamento fatta bene, se no restiamo sempre a quel che diceva Einstein: non si può risolvere un problema con la stessa mentalità che l’ha generato.

Non chiediamoci quali azioni mettere in campo ma qual è il cambiamento di medio-lungo termine che vogliamo raggiungere e quali sono gli strumenti più efficaci per raggiungerlo. Dobbiamo iniziare dal reale cambiamento che vogliamo portare. Il cambiamento reale a cui miriamo è l’inclusione, non tenere a scuola i ragazzi. Se la prospettiva è questa, cambiano molte cose.

Cosa è la valutazione di impatto spiegata in modo semplice?

Misurare il cambiamento, capire quanto di esso sarebbe avvenuto anche senza il mio intervento e quanto è dovuto effettivamente al mio intervento, quanto durerà il suo effetto dopo la fine del mio intervento e se ha avuto esternalità negative non previste.

La cosa più delicata è individuare gli indicatori di outcome, il focus va messo lì. L’output è l’elenco delle cose fatte (infrastrutture realizzate, servizi erogati… ), l’outcome è il cambiamento generato. Indicatori di output ne abbiamo e non ci portano troppo lontano: ci servono solo se cambiano la vita dello studente, se questo esce da scuola ed è una persona in grado di fare una vita autonoma e di partecipare alla vita della comunità attivamente.

Questi cambiamenti devono vedersi. Sempre l’OCSE dà dati inquietanti, in Italia un ragazzo su sei tra i 25 e i 34 anni non ha le basi minime per affrontare il mercato lavoro: eppure viene da scuola, alcuni sono anche laureati.

Se il risultato del nostro lavoro è questo, cosa li abbiamo tenuti a scuola a fare? La valutazione di impatto sta diventando un mantra, c’è nella riforma del Terzo settore, nella nuova legge sulla cooperazione internazionale, se ne parla ma mancano delle vere sperimentazioni.

È comunque il segno di una direzione nuova e imprescindibile se si vuole finalmente ragionare su strategie e politiche basate su evidenze. Altrimenti si continuerà a fare il balletto delle riforme e delle proposte, ognuna con i suoi piccoli risultati.

Diceva degli indicatori…

È tema complesso e delicatissimo. Nei decreti attuativi della riforma del Terzo settore dovrebbero esserci anche le linee guida per la valutazione d’impatto, ma chi decide quali indicatori? Settoriali: alcuni per l’educazione, altri per la povertà? Come possono essere confrontabili fra Napoli e Milano? Si stanno muovendo tante cose, anche a livello internazionale.

Fondamentale è costruire insieme questi indicatori, devono essere co-progettati, anche insieme a studenti e famiglie, dall’attore politico alla cooperativa sociale alla scuola ai genitori agli studenti, non deve esserci solo la scientificità astratta. Serve trovare un compromesso fra il troppo astratto e il troppo personalizzato.

Tutto questo finora in Italia è stato fatto pochissimo o per niente e oggettivamente non può essere richiesto agli operatori o ai docenti che lavorano sulla dispersione, già alle prese con le fatiche del lavoro quotidiano. È un intervento che deve affiancarsi a quello con i ragazzi, tramite un’alleanza tra più soggetti, incoraggiata dalla politica.

Dal basso cosa si può fare? Orientare, il terreno può dare delle linee: dall’incontro fra queste due direzioni dovrebbe venire le proposte migliori.

In Italia abbiamo due nuove azioni che hanno a che fare con la dispersione scolastica e una scuola più inclusiva. La prima è il bando ScuolaAlCentro, in scadenza a metà ottobre, 240 milioni di euro di fondi PON, l’altra i bandi per la povertà educativa, appena pubblicati. Vede un cambio di passo?

Si sta andando nella direzione giusta, da un lato con la valorizzazione delle scuole come centri di una comunità educante e dall’altro mettendo insieme trasversalmente realtà diverse. La pluralità di cause rende necessaria una pluralità di strategie, con la scuola come nodo centrale di una rete. Sono due direzioni che segnano una svolta, c’è la necessità di fare una valutazione seria e partecipata.

Cosa vede di positivo e quali criticità restano?

Per ScuoleAlCentro è positivo il fatto che si apra a più educazioni, come l’arte e lo sport, su cui insiste il bando: ci sono bisogni che vanno al di là dell’educazione standard in orari standard, è positiva la consapevolezza che ci sono più educazioni che possono contribuire all’eduzione curricolare.

È positivo anche il coinvolgimento e la valorizzazione delle realtà del territorio, creando microreti a livello locale, con la scuola al centro di una comunità, una sorta di community hub per rispondere a bisogni diversi.

Fra le criticità direi che le scuole spesso non sono attrezzate per gestire queste progettualità complesse, ci vorrebbe un’azione per rendere le scuole competenti nella progettazione e nella co-progettazione territoriale, nel monitoraggio, nella valutazione e nella rendicontazione.

Si possono creare alleanze, però la scuola deve avere quel minimo di competenze per coordinare il tutto. Inoltre queste esperienze meritano di essere raccontate: quale outcome hai avuto? Quali cambiamenti importanti hai avuto? I genitori hanno partecipato di più? Gli insegnanti sono più motivati? C’è più partecipazione?

I nuovi bandi contro la povertà educativa puntano molto ed esplicitamente sulla valutazione di impatto, anche perché si pongono come sperimentazione da cui trarre, fra tre anni, indicazioni per definire politiche nazionali efficaci.

Bisogna capire come si svilupperà il discorso della valutazione di impatto: con indicatori comuni a tutti? Con delle linee guida? Un tema fondamentale è che sia una valutazione partecipata con tutti stakeholder, fatta insieme ai destinatari e alle realtà intermedie coinvolte. Altro aspetto cruciale è il coordinamento fra i differenti centri di ricerca che verranno coinvolti, per ottenere risultati omogenei e confrontabili.

Se questa cosa verrà fatta, la valutazione sarà utile a disegnare le politiche future, altrimenti no: sembra una banalità ma non lo è, se raccolgo male le informazioni, esse danno indicazioni sbagliate. La raccomandazione è di andare fino in fondo, investendo le risorse necessarie, perché dalla qualità della valutazione dipenderà la qualità delle politiche.

È un problema quindi che il bando preveda per gli enti di ricerca solo un rimborso spese vive?

Potrebbe essere una criticità, visto l’obiettivo molto alto. L’investimento deve esse proporzionato al risultato che si vuole ottenere. In effetti non ho capito perché se la valutazione d’impatto è così importante, tanto da mettere nel bando la partnership con un ente di ricerca, siano previsti solo i rimborsi spese.

In questo modo potranno partecipare solo grandi enti di ricerca, il che può rappresentare un vantaggio ma anche un limite.

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